L'importante è partecipare. Non è vero. Soprattutto per un bambino di 5 anni.

Come lo spiego ad un bambino di 5 anni che l'importante è partecipare?
Che la medaglia la danno solo ai primi tre classificati?

Ieri mio figlio è entrato nel mondo della competizione. A sua insaputa.
Corsa campestre: Valerio corre con i guanti e il cappello, fa freddo, tutto il giro di campo. Ma è tra gli ultimi. Mentre si avvicina al traguardo gli vado incontro e lo incito. Lui mi vede e fa lo sprint finale. Io sono felicissima, lo abbraccio, lo bacio, gli dico BRAVO! Visto che ce l'hai fatta? non ti sei mai fermato!

Poi le premiazioni.
Senza pietà.
Mio figlio vede solo le medaglie degli altri, si emoziona e mi chiede "Quando mi chiamano?". E io, che so che non vincerà niente, sono molto in imbarazzo. Non so rispondergli.
Poi mi guarda e tutto contento mi dice "Mamma! ci sono anche i colori dell'Italia!"
Non so cosa fare.
"E a me?"
Eccoli lì, ha capito tutto e avrei pagato l'insegnate un milione di euro per fargli dire quello che invece ho dovuto dire io: che l'importante è partecipare.
Il problema è che non ci credo. E quindi Valerio non se la beve.

Valerio è scoppiato a piangere. Ho provato a consolarlo, ma più ci provavo e peggio era. Mi avvicino all'istruttore e provo a chiedere "Ma a lui la medaglia?" e questo mi guarda come se avessi provato a allungare la peggiore tangente della storia "Ma no signora - con due occhi così- solo chi vince!".
Gli indico mio figlio disperato, ha 5 anni e non è giusto insegnarli così una delle peggiori lezioni della vita. Allora di male in peggio: gli da una monetina di cioccolato. Quando Valerio capisce "che non è vera"...è stata la fine.

Ho dovuto spiegare che le vittorie si ottengono con l'impegno, la fatica, la costanza, il sudore. Che non sempre si è i più bravi e che anche se si è fatto tutto quello che si poteva fare anche in quel caso si può perdere. O arrivare secondi. Che è peggio. Infatti tutti i bambini arrivati secondi si stanno disperando.
Gli ho spiegato che ero contentissima mentre lo vedevo correre, così felice, così spensierato. E che quello che deve portarsi nel cuoricino è la felicità di quella corsa.

So che adesso non sarà più così.
Dalla prossima lezione, mio figlio - di 5 anni - andrà per vincere. Perché da ieri sera non fa che chiedermi quando ci saranno gli allenamenti (prima erano lezioni) e quando ci sarà la prossima gara (prima era una corsa) e se lui arriverà primo (prima erano un gruppo) per avere la medaglia, "quella vera".

Insomma, prima o poi avremmo dovuto affrontare l'argomento, ma non mi sarei mai aspettata che una corsa campestre avrebbe potuto influire così tanto su un bambino.
E pensare che l'abbiamo iscritto ad atletica perché pensavamo che gli avrebbe trasmesso un'idea più sana dello sport. E posso assicurare che gli insegnanti sono persone assolutamente genuine, che stimolano i bambini e che impostano le lezioni attorno ai giochi.
Ma lo sport non è un gioco. O meglio lo è fino ad un certo punto perché poi ci sono le gare.
Che non finiscono con una risata.
Si gioca per vincere. Sempre.

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